Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), cioè quella componente della retribuzione dei lavoratori dipendenti che viene erogata al momento della cessazione del rapporto di lavoro, può essere accantonato in azienda oppure destinato a un fondo pensione, e quindi investito sui mercati, a discrezione del singolo lavoratore. La scelta però può suscitare più di un interrogativo, tanto da preferire rimandarla continuamente e non prendere, di fatto, alcuna decisione. Insomma, nel dubbio sul da farsi, la strategia che viene spesso adottata è quella dell’opossum: rimanere immobili fingendosi morti. Non è un caso, infatti, che dal 2007 al 2023 solo il 22% del totale del TFR accumulato nelle aziende, pari a circa 97 miliardi, è stato conferito a una forma di previdenza integrativa. Il resto è rimasto in azienda: circa 98 miliardi sono stati destinati al Fondo di Tesoreria dell’Inps (per le aziende con più di 50 dipendenti), mentre ben 242 miliardi si trovano nei bilanci o nel circolante delle imprese con meno di 50 dipendenti. Un vero e proprio tesoretto.

La strategia dell’opossum viene confermata anche dall’ultimo sondaggio effettuato dalla società di consulenza Moneyfarm e dal titolo eloquente “TFR, Troppo Facile Rimandare?(con l’acronimo cambiato), da cui emerge come nonostante l’85% dei risparmiatori intervistati consideri economicamente vantaggioso investire il TFR in una forma di previdenza integrativa, soltanto un terzo del campione è effettivamente passato dalla teoria alla pratica e ha scelto di conferire il TFR a un fondo pensione.

Alla base della scelta di tenere il TFR in azienda, il campione intervistato da Moneyfarm crede vi sia soprattutto un problema di disinformazione: secondo il 39% dei rispondenti molti lavoratori dipendenti semplicemente non sanno di poter conferire il TFR a un Fondo Negoziale di Categoria, a un Fondo Aperto o ad un PIP. Un altro tema è quello della flessibilità, con quasi un quarto degli intervistati che vede il TFR in azienda come più liquido e flessibile.

È vero che lasciando il TFR in azienda è possibile riscattarne il 100% in caso di licenziamento o di cambio di impiego, mentre destinandolo alla previdenza complementare questo è possibile solo dopo quattro anni di disoccupazione, ma bisogna fare anche altre considerazioni. Una fra tutte riguarda la tassazione: ad ogni cambio di occupazione si perde almeno il 23%, perché il TFR lasciato in azienda, al momento della liquidazione, viene tassato in funzione delle aliquote Irpef (dal 23% al 43%), mentre il TFR destinato alla previdenza complementare “segue” il lavoratore a ogni cambio di lavoro, senza essere tassato nell’immediato, con un’aliquota finale, al momento della pensione, che varia dal 9% al 15%, a seconda degli anni di permanenza nella previdenza integrativa.

Inoltre, mentre l’anticipazione del TFR lasciato in azienda può essere richiesta soltanto una volta nell’arco dell’intero rapporto di lavoro, con un massimale annuo, con la previdenza integrativa non ci sono limiti alle domande di anticipazione, che possono essere inoltrate per le spese sanitarie (fino al 75% del totale accantonato in ogni momento), per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa (fino al 75% del totale dopo otto anni di versamenti), o per qualsiasi altro motivo (fino al 30% del totale trascorsi otto anni). C’è poi da considerare anche la novità per il 2025. Da quest’anno infatti la previdenza integrativa può servire ad anticipare il momento della pensione per i lavoratori che hanno iniziato a contribuire dal 1996 in poi: una misura che ha l’obiettivo di incrementare il numero di adesioni alla previdenza complementare e di stimolare il conferimento del TFR e i versamenti volontari dei lavoratori.

C’è poi il discorso remunerazione, che merita una riflessione. Il TFR lasciato in azienda al momento del riscatto verrà rivalutato in misura prestabilita ad un tasso fisso dell’1,5%, a cui si somma il 75% del tasso di inflazione, mentre quando si investe in un fondo pensione il rendimento dipende sempre dall’andamento dei mercati finanziari (andamento positivo o negativo). “Ma – precisa Andrea Rocchetti, Head of Investment Advisory di Moneyfarm – guardando agli ultimi dieci anni e nove mesi, il TFR lasciato in azienda si è rivalutato in media del +2,3%, mentre quello investito in un Piano Individuale Pensionistico con una linea azionaria ha reso una media del +4,8%, una forbice di più del doppio. Al netto di costi e fiscalità, anche in uno scenario di elevata inflazione media (3%), lasciare il TFR in azienda ha un costo per gli anni della pensione, con differenze che per i più giovani possono arrivare all’83% di ricchezza in meno”.

Per chiarire questo aspetto, Moneyfarm fa un esempio: un quarantenne dipendente, con un reddito di 2.000 euro netti, potrebbe attendersi 57.838 euro dal TFR lasciato in azienda, mentre, conferendolo a una forma di previdenza integrativa, potrebbe ricevere tra i 60.525 euro con una linea a basso rischio (obbligazionaria) e i 92.982 euro con una linea ad alto rischio (azionaria), un delta di ben 35.144 euro.

Dall’esempio, si nota chiaramente come la differenza scende con l’ età. “È fondamentale – conclude Rocchetti – agire il prima possibile, destinando il TFR alla previdenza integrativa fin dalla prima occupazione, in modo da poter accrescere il capitale in un orizzonte di lungo termine, attraverso soluzioni di investimento diversificate e a costi contenuti”.

 

 

Valeria Panigada