Nei giorni in cui si sta delineando il testo della Legge di Bilancio 2025, che potrebbe portare a qualche novità anche sul fronte pensioni, una cosa sembra certa: i conti previdenziali italiani continuano a peggiorare portando il sistema a rischio collasso. Una emergenza che sembra però non scrollare gli italiani che rimangono ancora inattivi per quanto riguarda l’attivazione di una pensione integrativa. A lanciare l’allarme, anzi il doppio allarme, questa volta è la società di consulenza Moneyfarm, che proprio in occasione del mese dell’educazione finanziaria (novembre), ha fatto il punto sul sistema pensionistico in Italia.

Conti previdenziali in continuo peggioramento

Ad oggi il rapporto tra spesa pensionistica e PIL, uno degli indici con cui si misura la sostenibilità del welfare pubblico, è pari al 15,6%[, percentuale che si stima salirà al 17% nell’arco di soli 15 anni. Colpa della crisi demografica, con il numero di nuove pensioni liquidate nel corso del 2023 che supera di gran lunga quello delle nuove nascite, arrivate a segnare un altro record negativo (379.339 neonati vs 519.879 neopensionati). In Italia, dunque, si fanno meno figli, si inizia a lavorare più tardi in un mondo del lavoro più precario e si vive sempre più a lungo: una combinazione di fattori che minaccia il patto intergenerazionale su cui si fonda l’intero sistema previdenziale pubblico.

Previdenza integrativa, questa sconosciuta

Di fronte a questa tendenza che sembra inesorabile si dovrebbe far strada tra i lavoratori la consapevolezza dell’importanza di aderire a una qualche forma di previdenza complementare ma, non è così. Secondo le stime di Moneyfarm, ad oggi solo un cittadino su quattro di età compresa tra i 30 e i 59 anni sta investendo in previdenza integrativa.

Anche l’uso del Tfr per alimentare la previdenza integrativa è limitato: dal 2007 al 2023, solamente il 22% di tutto il Tfr maturato è stato destinato ai fondi pensione. ll resto è rimasto nelle aziende o nel Fondo di Tesoreria dell’Inps, che raccoglie il Tfr delle aziende con più di 50 dipendenti.

Uomini e donne a confronto

Il tasso più elevato di adesione alla previdenza integrativa si riscontra tra gli uomini di età compresa tra i 40 e i 59 anni, circa un terzo dei quali ha sottoscritto un fondo pensione (33,5% vs 21% delle coetanee donne). All’opposto, la situazione più critica è quella delle giovani donne tra i 30 e i 39 anni: qui il tasso di adesione alla previdenza integrativa crolla al 17%, contro il 27% dei coetanei uomini.

Il motivo è, secondo Moneyfarm, da ricondurre non soltanto al fatto che le giovani lavoratrici aderiscano meno degli uomini ai fondi pensione (27% vs 33%), ma soprattutto al fatto che vi siano ben 17 punti di tasso di occupazione a separarle dai loro coetanei uomini. Nel complesso, infatti, le donne tra i 30 e i 59 anni hanno un tasso di occupazione medio del 63% circa, contro l’83% degli uomini, un divario che non può non riflettersi anche sulla pensione integrativa.

Previdenza al femminile: altro che rosa, il quadro è nero

Quello della previdenza al femminile è un quadro a tinte tutt’altro che “rosa”, soprattutto se si considera che, a partire dai 50 anni, il tasso di occupazione continua a calare al crescere dell’età, arrivando a sfiorare il 48% per le donne tra i 55 e i 64 anni (contro il 69% dei loro coetanei uomini). Spesso, dunque, pur potendo beneficiare del requisito di pensione anticipata inferiore di un anno (41 anni e 10 mesi vs 42 anni e 10 mesi per gli uomini), le donne non hanno la continuità lavorativa necessaria per accedere alla pensione per anzianità contributiva. Se poi si considera che l’età media di pensionamento – oggi pari a 64,2 anni – è destinata a salire ulteriormente in futuro, per via dell’aggiornamento dei requisiti pensionistici per l’aumento dell’attesa di vita, la situazione appare ancora più critica per le lavoratrici che si sono da poco affacciate al mondo del lavoro.

Oltre alla continuità lavorativa, a giocare a svantaggio delle lavoratrici è anche il divario retributivo di genere. Secondo l’edizione 2023 dell’Osservatorio Inps sui lavoratori dipendenti del settore privato, la retribuzione media annua degli uomini è infatti pari a 26.227 euro contro i 18.305 euro delle donne, con una differenza di quasi 8.000 euro annui che si traduce inevitabilmente in un assegno più basso per le pensionate. Una conferma in questo senso arriva anche dall’ultimo rapporto annuale dell’Inps di settembre, secondo cui nel 2023 la pensione media era pari a 1.750 euro lordi per gli uomini e 1.069 euro lordi per le donne, ossia, rispettivamente, circa 1.430 e 947 euro netti.

Valeria Panigada