L’evoluzione dell’empowerment (“potenziamento”) femminile e della parità di genere derivano dal ruolo della donna prima di tutto nella famiglia e nella società e quindi nel tessuto economico e lavorativo.
Secondo lo studio della prof.ssa Claudia Olivetti (Dartmouth College), se si analizza la prospettiva storica del ruolo della donna nello sviluppo economico (in particolare dalla fine dell’800 ad oggi), emerge una relazione positiva tra lo status delle donne e l’incremento del benessere economico di una nazione.
In particolare, se consideriamo un’economia prevalentemente agricola di fine ‘800, la partecipazione delle donne al processo produttivo è diretta, vale a dire che anche se l’attività non è remunerata direttamente, il loro contributo a livello sia economico sia familiare/casalingo è diretto.
Passando invece a un’economia più industriale di inizio ‘900, caratterizzata da una forte evoluzione del settore manifatturiero, l’uomo diventa il soggetto prevalentemente incaricato per portare a casa reddito. Si verifica quindi un declino nell’apporto che la donna può portare alla produttività economica e si demarca una separazione tra la sfera lavorativa e quella domestica. Gli uomini guadagnano sufficientemente, in genere, per far fronte con il loro solo stipendio alle esigenze della famiglia e si intensificano quindi le diseguaglianze di ruoli (in cui uno solo dei due è pagato!) con la figura dell’uomo che diventa più forte della donna.
Infine, dal secondo dopoguerra in poi si assiste a un incremento graduale del lavoro femminile in quasi tutti i paesi OCSE, grazie anche all’influenza dei movimenti femministi e all’avvento di un’economia fortemente basata sui servizi. Per cui dagli anni ’70 in poi aumenta la forza lavoro femminile e aumenta conseguentemente il PIL pro-capite di molti paesi.
Questo, come detto, si verifica in quasi tutte le economie OCSE, in primis in Svezia, Francia e Germania. In Italia anche, ma con livelli di occupazione femminile molto al di sotto della media (51% contro il 66% medio degli altri paesi). Perché? Per motivi legati soprattutto a norme sociali. Cerchiamo di fare degli esempi significativi.
Se consideriamo il livello di spesa pubblica volta a servizi educativi e di cura per la prima infanzia rispetto al tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 55 anni, emerge che c’è una correlazione positiva tra questi due fattori (più si investe sulle madri, sulle famiglie, sui bambini, più le donne lavorano). Paesi come Danimarca, Islanda, Svezia, Norvegia e Francia sono molto più avanti rispetto all’Italia per quanto riguarda tale relazione positiva. Il nostro paese registra sia livelli più bassi della media in termini di investimenti per l’infanzia, sia livelli inferiori di occupazione femminile.
Consideriamo anche il rapporto tra il livello di spesa pubblica per l’infanzia e la percentuale di persone che ritengono che “i bambini in età prescolare soffrano se le madri lavorano”: qui invece la correlazione è opposta rispetto a prima. Cioè più un paese investe nel sostegno alle madri lavoratrici, minore è il numero di persone che condividono questa opinione, quindi maggiore è il supporto alle madri lavoratrici appunto.
L’Italia è uno dei Paesi con il dato peggiore – è infatti (minor spesa pubblica e maggior numero di persone che credono che, “se sei madre, è meglio che tu stia a casa a badare ai figli”).
Occorre un cambio di marcia. Abbiamo un assoluto bisogno di un cambio di mentalità dal basso e di una spinta istituzionale dall’alto per migliorare la situazione. Promuovere il lavoro femminile per le donne italiane e quindi il loro empowerment nella società, incrementerebbe il PIL del nostro paese, portando benefici a tutti, uomini e donne insieme.